Lo Stato italiano è da anni inadempiente nei confronti di chi si prende cura quotidianamente di un familiare con disabilità: i cosiddetti caregiver. Troppe promesse di una legge che li tuteli, ma nessuna riforma concreta. Molti hanno persino dovuto rinunciare al lavoro, senza che lo Stato offrisse una vera protezione.
Come associazione, dalla nostra nascita lottiamo perché le famiglie con figli con disabilità possano avere l’assistenza adeguata a casa e a scuola: solo così i genitori possono restare nel mondo del lavoro e non esserne espulsi. In particolare, sono soprattutto le madri a pagare il prezzo più alto, costrette a lasciare l’occupazione e a scomparire agli occhi della società.
Oggi, almeno per i caregiver che lavorano, c’è una novità importante: una tutela in più riconosciuta non dal nostro governo – che continua a tacere nonostante le promesse – ma dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Andiamo in ordine.
Per milioni di persone in Italia, la giornata non finisce con l’uscita dall’ufficio. Inizia un secondo lavoro, non retribuito ma di immenso valore: l’assistenza a un familiare con disabilità. Sono i caregiver, una colonna portante della nostra società che spesso si muove in silenzio, cercando di conciliare le esigenze professionali con i doveri di cura.
Una recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (causa C-38/24) ha acceso un faro su questa realtà, introducendo tutele che potrebbero cambiare radicalmente il loro rapporto con il mondo del lavoro.
Per capire la portata di questa novità, è utile fare un passo indietro. Da anni, il diritto europeo riconosce il principio della “discriminazione per associazione”. Il caso che ha fatto da apripista è stato Coleman contro Attridge Law. La signora Coleman, madre di un bambino con disabilità, subì un trattamento sfavorevole sul lavoro. La Corte di Giustizia stabilì allora un principio fondamentale: si può essere vittime di discriminazione non solo per una propria caratteristica (come la disabilità), ma anche per l’associazione con una persona che possiede quella caratteristica.
Tuttavia, il caso Coleman si concentrava sulla discriminazione diretta, ovvero quando un datore di lavoro tratta un dipendente in modo palesemente peggiore a causa del suo ruolo di caregiver. Restava una zona grigia: cosa succede quando una regola aziendale, apparentemente neutra e valida per tutti, finisce per penalizzare proprio chi assiste un familiare?
La recente sentenza C-38/24 nasce proprio per colmare questo vuoto. Il caso riguarda una lavoratrice italiana, madre di un figlio con grave disabilità, che aveva chiesto al suo datore di lavoro un turno fisso al mattino per poter assistere il bambino nel pomeriggio. Di fronte al rifiuto dell’azienda, la questione è arrivata fino alla Corte di Giustizia UE, che ha stabilito due principi rivoluzionari.
Estensione alla discriminazione indiretta
La Corte ha chiarito che anche una prassi aziendale apparentemente neutra, come l’organizzazione del lavoro su turni a rotazione, può costituire una discriminazione indiretta. Se questa prassi mette i lavoratori caregiver in una posizione di “particolare svantaggio” rispetto agli altri colleghi, allora è illegittima, a meno che non sia giustificata da esigenze oggettive e proporzionate.
L’obbligo di “Accomodamenti Ragionevoli”: È questo il punto più innovativo. La Corte ha affermato che i datori di lavoro hanno l’obbligo di adottare “soluzioni ragionevoli” per andare incontro alle esigenze del lavoratore caregiver. Non si tratta più solo di concedere i permessi previsti dalla Legge 104, ma di avviare un dialogo per trovare soluzioni pratiche (come la modifica dell’orario, una diversa turnazione o la concessione dello smart working) che consentano di conciliare lavoro e cura.
Le implicazioni di questa sentenza sono profonde e segnano il passaggio da un sistema di diritti rigidi a un approccio più flessibile e basato sul dialogo.
Per i lavoratori caregiver: Si apre una nuova via di tutela. Ora possono chiedere adattamenti delle condizioni di lavoro non specificamente previsti dalla normativa nazionale, fondando la loro richiesta su un principio europeo di non discriminazione. Non è un diritto assoluto, ma la base per avviare una negoziazione costruttiva con l’azienda.
Per i datori di lavoro: Nasce un nuovo dovere. Non basta più limitarsi a una verifica formale dei requisiti per i permessi della Legge 104. Ora sono chiamati a un ruolo proattivo: devono prendere in seria considerazione le richieste di accomodamento e, in caso di rifiuto, devono essere in grado di dimostrare che la soluzione richiesta comporterebbe un “onere sproporzionato” per l’organizzazione aziendale.
Diffondete la notizia di questa sentenza importante: avrà un impatto diretto su molti caregiver in Italia.